Necessaria una relazione affettiva caratterizzata da continuità e stabilità
Codice Penale alla mano, si deve ritenere sussistente la convivenza solo laddove sia accertata l’esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità

Relazione stabile e arricchita da un figlio: ciò non basta per catalogare come maltrattamenti le violenze dell’uomo ai danni della compagna. Questo il punto fermo fissato dai giudici (sentenza numero 32466 del 9 agosto 2024 della Cassazione), poiché, spiegano, si può parlare di convivenza solo ove sia accertata l’esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità. In sostanza, lungi dall’essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve essere espressione di una relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita. Esaminando la specifica vicenda, i magistrati pongono in rilievo un dato certo: tra l’uomo e la persona offesa, non uniti da matrimonio, vi è stata una relazione sentimentale stabile – ma senza convivenza – protrattasi per cinque anni e dalla quale è nata una figlia. A fronte di tale quadro, per considerare concretizzato il reato di maltrattamenti in famiglia non è sufficiente, spiegano i giudici, il riferimento ad una situazione caratterizzata solo dalla accertata esistenza di una relazione sentimentale in cui si sia instaurato un vincolo di solidarietà personale tra i partner, bensì è necessario valorizzare l’espresso riferimento, contenuto nella norma, alla figura del convivente, parificata a quella del familiare, come persona offesa. In questo quadro i giudici aggiungono un dettaglio: il legislatore, con la formula “maltratta una persona della famiglia, o comunque convivente”, ha inteso far riferimento a condotte che vedono come persona offesa il componente di una famiglia, intesa come comunità qualificata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, ovvero il soggetto che ad esso componente sia parificabile in ragione di una accertata relazione di convivenza, che, lungi dall’essere riconoscibile nella presenza non continuativa di una persona nell’abitazione di un’altra, è solo quella che si crea quando la coabitazione della coppia sia caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo. A sostegno di questa visione anche i punti fermi posti dalla Corte Costituzionale, secondo cui è sempre obbligatorio chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di convivenza e se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una tale relazione consenta di qualificare quest’ultima come persona appartenente alla medesima famiglia del soggetto accusato di maltrattamenti in famiglia. Tirando le somme, Codice Penale alla mano, si deve ritenere sussistente la convivenza solo laddove sia accertata l’esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità. Lungi dall’essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve essere espressione di una relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita», chiosano i magistrati di Cassazione, rimettendo la questione ai giudici di secondo grado. Impossibile, quindi, parlare di maltrattamenti in famiglia se si deduce l’esistenza di una situazione di convivenza solo sulla base della esistenza di una relazione stabile tra i due partner, senza tuttavia esplorare il tema della coabitazione, non necessariamente continuativa, tra loro.