È legittimo il licenziamento in caso di condanna per violenza di genere.
Il patteggiamento implica un riconoscimento di colpa e può essere un fattore determinante nel compromettere la fiducia del datore di lavoro nella capacità del dipendente di adempiere efficacemente ai suoi compiti, soprattutto se sono legati direttamente al servizio offerto al pubblico.

Il caso in esame riguarda il licenziamento disciplinare di un impiegato di trasporto pubblico coinvolto in atti persecutori, minacce e molestie verso la sua ex moglie, per i quali ha patteggiato la pena. Il datore di lavoro ha sospeso l'impiegato a seguito della sua condanna per violenza di genere e stalking contro la donna. Questa condanna ha sollevato dubbi sulla capacità del lavoratore di gestire i rapporti con gli utenti dei trasporti pubblici.
La Cassazione ha confermato il licenziamento del lavoratore, respingendo l'argomento difensivo secondo il quale il patteggiamento non sarebbe equivalente a una condanna e quindi non avrebbe dovuto comportare il licenziamento ma una sanzione disciplinare più leggera. È stato chiarito che la legge attuale non consente l'applicazione degli articoli 18, comma 4 e 5 dello Statuto dei lavoratori al caso in questione.
Secondo la Corte Suprema, infatti, il licenziamento si giustifica in virtù del fatto che il lavoratore ha reso se stesso indegno di pubblica stima per le sue azioni disonorevoli e immorali, tra cui condanne per minacce, stalking e molestie. Nonostante i reati non fossero stati commessi sul posto di lavoro, hanno compromesso la fiducia del datore di lavoro nel dipendente.
Riguardo alla questione della rilevanza disciplinare del patteggiamento, la Corte ha chiarito che, nonostante non costituisca una condanna formale, implica un'ammissione di colpa che esonera la controparte dall'onere della prova. Quindi, il patteggiamento è considerato un elemento probatorio cruciale per il giudice.
In conclusione, la Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito secondo cui il comportamento del lavoratore ricadrebbe nei punti 6 e 7 dell'articolo 45 del Regio Decreto n. 148/1931, consentendo così il licenziamento. Questa sanzione più severa è stata considerata adeguata alla luce della grave condanna sociale nei confronti della violenza di genere, evidenziata nelle azioni persecutorie e minacciose del lavoratore verso la sua ex moglie (Cas. n. 24140 del 9 settembre 2024).